qualche pezzo di me

MI CHIAMO ALCIDE

Era un dolce giovedì di aprile.

Nina si svegliò poco più tardi del solito poiché quel giorno era di riposo, e non voleva poltrire nel letto per tutta la mattina. Aprì gli occhi, si stiracchiò indugiando qualche istante prima di alzarsi per andare in bagno.

Il torpore del sonno svanì di botto quando una sgradevole sensazione di vuoto si impadronì del suo corpo, come se il materasso fosse scomparso sotto di lei. Rimase paralizzata dallo sconcerto, proprio mentre cercava di capire la natura del fenomeno ebbe l’impressione che il letto si spostasse.

Sollevò il capo dal cuscino e vide il pavimento ondeggiare e i mobili piccoli scivolare per la stanzetta.

Pensò immediatamente al terremoto.

‘Cazzo! Il terremoto, oh mamma e adesso cosa faccio?’ Pensò in preda al panico.

‘Calma, Nina calma, in queste occasioni l’importante è non perdere il controllo! Adesso mi alzo apro la finestra e guardo cosa sta succedendo fuori: dicono che non bisogna usare le scale quando c’è il terremoto. Mal che vada mi butto di sotto tanto sono al primo piano e l’erba del giardino attenuerà i danni, sempre meglio che aspettare che il piano sopra mi crolli in testa.’

Mentre vedeva il pavimento ondeggiare, si levò dal giaciglio e, aggrappandosi alla tenda, arrivò alla finestra, aprì vetri e persiane e guardò fuori.

Con grande sorpresa vide che, oltre la cornice, il paesaggio, le case, e tutto il resto era immobile e tranquillo. Fuori era tutto nella norma. Nessun movimento tellurico, nessuno in preda al panico che urlava o fuggiva, il gatto del vicino la osservava beatamente sdraiato sull’erba leccandosi le zampe. ‘Cosa diavolo sta succedendo?’ Si domandò mentre girava il capo verso l’interno della stanza. Compiendo quel gesto il maleficio riprese, vide ancora i mobili muoversi sensibilmente, il pavimento della sua camera ondeggiare.

Di scatto rivolse lo sguardo di nuovo all’esterno e di nuovo vide tutto immobile. Dentro terremoto, fuori pace assoluta.

A quale tipo di funesto sortilegio stava assistendo?

Perché la sua casa era come una barchetta in mezzo a burrascose onde e fuori c’era bonaccia assoluta?

Tornò a sedersi sul letto, per far mente locale. Sì concentrò per quel poco che riusciva a fare e, dopo qualche istante, si accorse che in realtà non era la stanza, non erano i mobili a muoversi: era la sua percezione dell’interno che faceva apparire quel fenomeno.

Era il suo cervello che percepiva la casa in preda alla tempesta. Ecco la sensazione precisa: stare su una barca in mezzo ad una tempesta ed avere un fortissimo mal di mare!

Esattamente, l’impressione era identica al mal di mare!

‘Allora sono io ad avere un problema, c’è qualcosa che non funziona dentro me. Beh, non drammatizziamo, magari è solo una forma di cervicale, oppure è la fame che mi fa girare la testa.

Ora preparo la colazione, sono certa che tra poco tutto tornerà a posto.’ Cercò di rincuorarsi.

Con estrema lentezza passò in bagno a sciacquarsi il viso, tolse il pigiama, mise la tuta e andò in cucina.

Davanti alla tazza di latte tiepido ed un bel pacco di biscotti fragranti, le sembrò di stare un po’ meglio. Dopo aver mangiato, sedette sul divano in attesa che il malessere l’abbandonasse.

Passò mezz’ora, ma la situazione non migliorava. Anzi, s’era aggiunto un leggero senso di nausea, non dovuto al cibo, ma proprio a quella sorta di mal di mare che le impediva di muoversi.

Poteva solo restare seduta appoggiata allo schienale del divano con la testa diritta, qualunque movimento facesse, anche girare il capo lievemente da qualunque lato, la riportava in mezzo alle onde tempestose.

Attese paziente per oltre un’ora poi, vedendo che il malessere peggiorava, si decise a telefonare al marito.

“Marco per favore corri a casa, sto malissimo…no non so di cosa si tratti mi gira la testa ho la nausea e non mi reggo in piedi. Vieni subito ti prego, mi sembra di impazzire, devi portarmi dal medico.”

“Arrivo subito, andiamo al pronto soccorso.”

“No, niente pronto soccorso, meglio il nostro medico, a quest ora è in studio.”

In sala d’attesa c’erano meno di dieci persone, quando videro arrivare Nina le diedero subito la priorità, era troppo evidente la sua sofferenza.

Il Dott. Ponti la visitò accuratamente, mentre Marco assisteva ed ascoltava le sue parole.

“Niente di grave ragazzi, si tratta di una forma di vertiginosi. Succede durante il cambio di stagione o in periodi di particolare stress.

Adesso ti faccio un’iniezione, questa sera ne fai un’altra e vedrai che domattina sarà tutto risolto. Per sicurezza fanne ancora tre nei giorni successivi, ma credo che non saranno necessarie.

Vai a casa resta coricata e riposati.”

“E’ una parola restare coricata, riesco a stare a malapena seduta con la testa appoggiata e assolutamente immobile, altrimenti mi sembra di entrare in una centrifuga.”

“Capisco, ma non spaventarti, ripeto che si tratta di un malessere passeggero. Tra una settimana non ti ricorderai nemmeno di questo episodio.”

“Grazie dottore, e buona giornata.”

Marco rimase tutto il giorno accanto a lei in attesa di vederla recuperare il controllo.

Nina si assopì per un poco sempre restando seduta sul divano, ma quando si destò, stava ancora peggio, il malessere non passava.

Verso sera fece la seconda iniezione, e anche nei tre giorni successivi.

Il quarto giorno stava ancora malissimo e il disturbo non sembrava migliorare.

Tornò dal medico che questa volta non esitò a mandarla immediatamente dall’otorinolaringoiatra sospettando una prepotente forma di labirintite acuta.

L’otorino diagnosticò la Sindrome di Meniere, poiché i sintomi andavano oltre quelli di una semplice labirintite, e prescisse il ricovero immediato in ospedale.

“Vada a casa prenda il necessario e torni immediatamente nel mio reparto, le faccio preparare un letto.”

Ordinò lo specialista senza possibilità di replica.

Nina rimase muta sino a quando Marco la fece salire in auto, poi scoppiò in lacrime biascicando tra i singhiozzi che non voleva essere ricoverata, preferiva curarsi a casa, in ospedale sarebbe stata assai peggio.

Marco cercò di tranquillizzarla, promettendole che sarebbe rimasta solo il tempo necessario per le analisi del caso e comunque lui sarebbe stato sempre presente, non l’avrebbe lasciata sola.

La rassicurò dicendo che in ospedale il disturbo sarebbe stato curato adeguatamente e lei sarebbe tornata a casa in fretta.

Si presentò all’accettazione con il viso sfatto per le lacrime, l’addetto era un uomo sgarbato e quasi si mise a ridere quando lesse il motivo del ricovero: “Sindrome Menieriforme”.

“La signora cià la sindrome – disse con tono sarcastico – vengono a occupare i letti con la sindrome, roba da matti…”

Nina ebbe un moto d’odio nei confronti di quell’individuo, ma ingoiò le lacrime e si diresse mestamente verso il reparto dove l’attendeva il posticino riservatole.

Questo prologo la buttò ancora di più nello sconforto e, mentre salutava il marito, si ficcò sotto le coperte per non sentire più nulla in attesa di una lunga notte di incubi.

Non chiuse occhio per tutta la notte, e ne fu quasi sollevata: quantomeno aveva evitato incubi devastanti.

La mattina presto a digiuno le prelevarono il sangue per le analisi del caso.

Marco arrivò nella pausa pranzo e parlò col primario del reparto il quale lo mise al corrente della situazione, i sintomi erano quelli diagnosticati per il ricovero: “Sindrome di Meniere” ma, ovviamente, la certezza sarebbe giunta dopo tutti gli accertamenti di prammatica, perciò la ragazza doveva rimanere in ospedale per almeno una decina di giorni.

Nel frattempo le cure mediche cominciavano a sortire i loro effetti e, nel pomeriggio, Nina stava meglio. Nausea e capogiri erano spariti, ma aveva persistenti e fastidiosi ronzii dentro le orecchie che erano lo strascico della fase acuta.

Il suo umore migliorò ancora il giorno seguente quando sentì di aver ripreso decisamente il controllo, insomma sembrava che tutto fosse finito, in ogni caso doveva restare ancora ricoverata perché la procedura richiedeva il completamente del protocollo indicato.

L’umore era fluttuante, chiari e scuri si susseguivano repentinamente e i momenti bui erano più frequenti perché a lei proprio non piaceva rimanere in ospedale: in tutta la sua vita c’era stata solo il minimo necessario per l’appendicectomia.

Le giornate passavano tra i vari accertamenti diagnostici. Lunghe attese nei laboratori, nomi mai uditi prima: esame audiometrico, impedenziometrico, elettrococleografico (parola quasi impronunciabile).

La cosa positiva era che nessuno faceva male poiché si trattava di sistemare apparecchiature dentro oppure dietro le orecchie e registrare dati che venivano scritti dalla macchina come i grafici dell’elettrocardiogramma. Quello più fastidioso fu l’introduzione di liquidi nel padiglione auricolare e permettere al tecnico di osservare l’effetto dentro gli occhi.

Non capiva per quale motivo anche gli esami di cuore e polmoni fossero nella tabella di marcia.

Chiese chiarimenti al primario il quale la tranquillizzò dicendo che erano gli accertamenti obbligatori per escludere altre cause estranee all’apparato uditivo, essendo la sindrome di Meniere una malattia affatto comune dovevano aggiungere accertamenti oltre il necessario.

Ora stava bene ma il fastidioso ronzio nelle orecchie che rimbombava anche nel cervello, non sembrava volersene andare anzi, i rumori si diversificarono e scoprì che l’insieme di tutti quei suoni prodotti dal disturbo si chiamavano “acufeni”.

“Acufeni” ancora non sapeva che quella parola e quei sintomi sarebbero stati da allora in avanti una costante della sua esistenza e che nella sua vita non ci sarebbe più stata la pace del “silenzio assoluto”…

Per l’intera settimana ogni giorno era costellato da spostamenti in altri reparti per completare il tour programmato nella cartella clinica.

L’ultima visita fu in oculistica perché anche disturbi visivi possono portare capogiri e nausea.

Appurato che Nina era in perfetta salute, la vista era ottima, cuore e polmoni addirittura eccellenti, il primario la convocò per dirle che gli esami strettamente riguardanti la sindrome di Meniere avevano dato esito negativo, benché vagamente ambiguo, pertanto restava un ultimo dubbio da cui sollevarsi, per scrupolo avrebbe fatto venire un neurologo dallo psichiatrico che non si trovava nell’ospedale centrale ma da un’altra parte della città: nella sede dell’antico manicomio…

La notizia della necessità di una visita neurologica fece rabbrividire la giovane che, comunque, cercò di allontanare l’ansia pensando che sarebbe stato l’ultimo passo verso il ritorno a casa. Perciò quando arrivò lo specialista, di buon grado, si sottopose alla lunga intervista ed alle manovre tecniche che il medico le indicava per completare l’ultima indagine.

Quante volte aveva visto in tv la scena del martelletto di gomma rimbalzare sul ginocchio di un paziente ed aveva riso, non pensava proprio che sarebbe toccato anche a lei vedere la gamba reagire alla sollecitazione imposta dalla manovra. Ebbe persino un momento di serena ilarità vedendosi in quella buffa situazione.

Purtroppo la serenità ebbe vita breve poiché appena furono espletate le verifiche necessarie udì il neurologo rivolgersi allo specialista di otorino dicendo:

“Niente di grave, io penso sia la somatizzazione di una forma depressiva bella tosta che il cervello ha cercato di mascherare in modo abbastanza singolare, provocando sintomi di una patologia di cui la paziente non è realmente affetta.

Mandala da me, la tengo per qualche tempo così la tiriamo un po’ su…”

Nina volle credere di aver capito male ma, quando la caposala del reparto le disse di preparare la sua valigia e tenersi pronta perché di lì a poco l’ambulanza l’avrebbe prelevata per condurla al neuro, senza darle retta corse dal primario che stava uscendo per andare a pranzo, lo afferrò per la giacca e concitatamente ma con fermezza gli disse che lei non sarebbe andata all’ospedale neurologico, la sua degenza sarebbe finita in quel momento e quindi voleva tornata a casa.

“Signora stia tranquilla, è solo per un piccolo controllo che qui non possiamo eseguire perché non abbiamo gli strumenti.

Non c’è proprio nulla di cui preoccuparsi, ma è nostro dovere dimetterla solo quando sarà completamente guarita e..”

“Guarita? Guarita da cosa, non mi avete ancora detto che malattia ho, anzi non mi avete nemmeno detto che sono ammalata. Si può sapere che cosa mi sta succedendo? Sono qui da dieci giorni mi avete esaminata come una cavia da laboratorio senza darmi spiegazioni, adesso mi sbattete al neuro per “farmi guarire” da non so che cosa e io devo starmene tranquilla?

Non se ne parla proprio, io me ne vado a casa! Adesso chiamo mio marito e gli dico di venire a prendermi!” Concluse alzando i toni.

“La prego, sia brava. E’ per il suo bene, vedrà che tra un paio di giorni, una settimana al massimo, potrà tornare a casa senza problemi e libera da qualunque disturbo.”

“Niente affatto, voglio qui mio marito.”

“Va bene, lo chiami pure. Comunque adesso prepari le sue cose, l’ambulanza non può attendere.”

Marco arrivò immediatamente ma, nonostante i pianti e le suppliche della moglie, sebbene a malincuore dovette convincerla che era la cosa migliore da fare per risolvere in fretta la situazione. Perciò seguì in auto l’ambulanza per accompagnare Nina nell’altro ospedale, l’ospedale neurologico…

Le motivazioni che il medico gli aveva fornito erano più che persuasive, soprattutto dopo che lui stesso ammise che da almeno un anno il loro matrimonio non funzionava più e probabilmente la moglie ne aveva sofferto al punto da somatizzare i problemi derivanti dal contesto famigliare.

Ammutolita e frastornata Nina guardava la città attraverso il vetro dell’ambulanza.

Non le avevano nemmeno permesso di vestirsi, stava viaggiando in pigiama e vestaglia, con la piccola valigia sulle ginocchia, verso una destinazione che mai avrebbe pensato dovesse ospitarla.

Quella struttura era ancora chiamata da tutti: il manicomio…

Nonostante la primavera avesse reso splendidi i pruni fioriti, quel viale di accesso al neuro col grande cancello pannellato in ferro aveva un aspetto sinistro come la casa del film Psycho.

Ancora peggio era la grande struttura che ospitava l’ospedale: un casermone rettangolare di quattro piani, nascosto dentro una specie di parco molto trascurato, con tutte le finestre inesorabilmente sbarrate da potenti griglioni inespugnabili.

L’ingresso era composto da un grande salone in fondo al quale c’erano due enormi scale semicircolari che si congiungevano in un unico ballatoio d’accesso ai vari corridoi e ai piani superiori oltre, naturalmente, agli ascensori per barelle.

Marco salutò Nina dopo averla accompagnata all’ingresso, ora a lei sarebbero toccate le pratiche per il nuovo ricovero perciò era inutile rimanere.

Un’infermiera la condusse nello studio dello specialista che aveva ordinato il trasferimento.

Il medico la fece sedere e stilò una cartella clinica d’ingresso dove, oltre a tutti i dati e l’anamnesi della paziente, prescrisse l’elettroencefalogramma e i medicinali da somministrarle durante la degenza, consegnò tutto all’assistente che accompagnò la ragazza nel posto letto assegnatole.

L’interno dell’ospedale non smentì l’impressione iniziale. Nina stava percorrendo con la sua accompagnatrice un lungo e ampio andito ai lati del quale c’erano tante porte chiuse con i nomi di altri medici e stanze per visite ed esami.

In fondo c’era un androne con tre grandi porte a doppio battente in legno bianco, entrarono nella zona centrale e Nina capì che quello sarebbe stato il suo settore.

Il reparto era composto da un lungo e ampio corridoio con ai lati stanze molto grandi, l’infermiera la fece entrare nella numero nove e le assegnò un letto.

Più che una stanza sembrava una camerata militare: grande, con il soffitto alto e cinque letti per lato abbastanza distanziati tra loro. Era chiaramente la struttura originaria del manicomio, semplicemente rinfrescata e resa meno costrittiva, almeno apparentemente…

Erano quattro i posti occupati, naturalmente da sole donne.

A Nina era stato assegnato un letto centrale. Alla sua sinistra vicino alla finestra c’era una donna anziana che dormiva; esattamente di fronte a lei una strana tipa sulla cinquantina sdraiata sopra le coperte ascoltava la musica in cuffia, era addobbata con una vaporosa vestaglia rosa orlata di jabot sotto la quale si vedevano le autoreggenti nere a rete e una camiciola coordinata con la vestaglia, ai piedi del letto un paio di scintillanti ciabattine in lamé rosso con tacco a spillo, la donna era truccata come un’attrice d’avanspettacolo ed aveva capelli biondo paglia molto gonfi e pieni di lacca.

Alla sinistra una tranquilla signora stava leggendo una rivista mentre, vicino all’altra finestra, c’era una forma umana ben sigillata dalle coperte sino sopra la testa, perciò non riusciva a capire chi o che cosa fosse.

Nina farfugliò un “buongiorno” senza attendere risposta e sistemò le sue cose dentro i mobiletti assegnati. Quindi s’infilò nel letto fingendo di dormire perché non voleva parlare con nessuno né tanto meno porre o rispondere a domande. Circolava la staticità del pomeriggio inoltrato in attesa della cena perciò le altre donne continuarono a farsi i fatti loro dopo un cenno di saluto.

Poco dopo arrivò l’infermiera a farle un’iniezione che lei subì senza fiatare.

Alle diciotto venne servito il pasto serale composto da brodino, purè di patate e pollo lesso. Nina non toccò nulla dal vassoio delle vivande e, quando l’inserviente ritirò i piatti, si prese il primo rimprovero per non aver mangiato.

Disse di non aver appetito e si rifugiò nel letto piangendo sommessamente.

Dopo un’ora arrivò il carrello con le medicine, a lei furono somministrate due pillole seguite dall’ordine di mettersi tranquilla.

I pasti si consumavano nelle camerate, non esistevano locali mensa né una sala ricreazione con televisore, alle 21 tutte le luci principali furono spente, solo nel corridoio rimasero le lampade di sicurezza.

La sua stanza era abbastanza silente, ma la donna in vestaglia rosa continuava ad ascoltare musica canticchiando le canzoni come se fosse in casa propria.

Da altre camere giungevano lamenti e rumori incomprensibili, soprattutto da quelle in fondo al corridoio che erano più piccole e con le porte chiuse. In seguito seppe che là dentro c’erano i lungodegenti, persone molto anziane non autosufficienti che venivano legate ai letti.

La notte trascorse tra incubi e risvegli continui.

La mattina, alle cinque in punto, una voce femminile sgarbata e tonante la fece saltare dal letto mentre tutte le luci venivano accese bruscamente.

“Sveglia pelandrone, andate a lavarvi, muovetevi a sgomberare la stanza che dobbiamo fare pulizia e dopo arriva la colazione!

Restate fuori e non rientrate finché non vi do il permesso.”

Sì: quella era proprio la sveglia della recluta, benché non avesse fatto il servizio militare ne era certa.

Aveva intravisto i servizi igienici il giorno precedente, adesso che ne usufruiva si rendeva conto dello squallore che regnava ovunque dentro quel luogo dove, teoricamente, per persone andavano per “tirarsi su”.

Tutto era controllabile a vista, così anche i bagni costituiti da un grande locale con gabinetti provvisti di porte a molla, non  c’erano docce né vasche, solo grandi lavatoi con tanti rubinetti dove per espletare le pratiche di pulizia bisognava fare acrobazie per non bagnare dappertutto, l’igiene intima poi era quasi impraticabile. Nina si arrangiò con una spugna per limitare i danni. Probabilmente la pulizia completa veniva fatta altrove, saltuariamente, e sotto il controllo del personale di corsia.  D’altra parte era meglio così, dal momento che tutto il locale non brillava per nettezza conveniva non stare troppo a contatto con i sanitari onde evitare fastidiosi contagi.

Nel corso della giornata seppe che il suo era un reparto “tranquillo”, i ricoverati non erano da tenere sotto vigilanza e non avevano patologie gravi: la donna anziana era parcheggiata lì perché essendo arteriosclerotica i parenti ogni tanto la allontanavano da casa; la vamp, ex prostituta, era ricoverata per una serie di iniezioni lombari, la signora tranquilla soffriva di emicrania, mentre il fagotto nel letto vicino alla finestra, per il momento, restava un mistero poiché non l’aveva ancora vista uscire dal giaciglio e all’ora di pranzo solo una mano scarna si levò per afferrare il piatto e consumare il pasto sotto le coperte.

Il pomeriggio le fecero l’elettroencefalogramma e basta, nei giorni seguenti non vide più alcun medico, le venivano somministrati farmaci a tutto spiano, ma nessuno le dava spiegazioni sulla cura o sull’andamento della degenza. Il personale di sala non sapeva nulla e ripeteva che sarebbe stata informata delle sue condizioni e tempi di degenza al momento opportuno, non doveva fare domande ma fidarsi di quello che era stato predisposto per la terapia assegnatale dagli specialisti.

La seconda notte fu svegliata all’improvviso da una mano che afferrò la sua spalla, rimbalzando di scatto si trovò seduta sul letto, davanti a lei c’era un’ombra scusa che la chiamava dicendole di alzarsi perché bisognava andare. Riconobbe la voce della vecchia arteriosclerotica, quindi chiese dove si andava.

“In bagno – rispose la vecchia – oggi facciamo il bagno.”

Anche le altre si svegliarono e la donna fagotto richiamò l’anziana dicendole: “Torna a letto nonna, è ancora presto, fai la nanna e non disturbare la ragazza.”

Poi rivolgendosi  a Nina continuò: “Non farci caso, ogni tanto le prende un attacco e comincia a girare, ma non è pericolosa disturba soltanto, se non si calma suona il campanello che arriva l’infermiera a sedarla.”

Per fortuna l’anziana tornò a letto e si chetò.

Il giorno seguente, approfittando del fatto che la persona fantasma s’era palesata con la voce, Nina si avvicinò al suo letto.

A bassa voce e con dolcezza le chiese se poteva fare la sua conoscenza.

La ragazza scostò il lenzuolo mostrando la sommità del capo e gli occhi, osservò Nina per qualche istante e poi tirò fuori anche le braccia ed il viso.

“Ciao” Disse piano.

Nina finalmente la vide: una giovane bellissima con lunghi capelli mossi di colore rosso, grandi occhi castani e la carnagione candida e trasparente che ben poche volte aveva ricevuto direttamente i raggi del sole.  Era minuta e magrissima, la camicina verde bordata di pizzo la faceva sembrare una bambina.

Nina allungò la mano e sì presentò dicendo il proprio nome. “E tu come ti chiami?”

“Mi chiamo Alcide…”

“Alcide? E’ un nome maschile…”

“Sì, mio padre voleva un maschio ed aveva già deciso di chiamarlo Alcide, quando sono nata io rimase deluso, ma non volle cambiare il nome, perciò questo mi è rimasto.”

“Come mai sei in questo posto?”

“Non ho appetito e i miei zii non hanno tempo di starmi dietro, così ogni tanto mi mandano qui per curarmi.”

“Non hai i genitori?”

“Ho solo mio padre, ma è in prigione…” Disse con la massima naturalezza, e poi continuò senza che Nina la sollecitasse a parlare. “Dieci anni fa ha scoperto mia madre con un amante, ha preso il fucile da caccia e lo ha ucciso.”

“E…tua mamma?”

“La mamma sì è suicidata buttandosi nel fiume. Io sono rimasta sola, mi hanno messa in un collegio ma tre anni fa ho compiuto i diciotto e quindi non potevano più tenermi, perciò ora sto con la sorella di mio papà.”

Nina era sconvolta dalle parole che diceva la ragazza al punto da pensare che fosse tutto inventato, perciò rimase muta fino a quando Alcide riprese a parlare.

“So che è una brutta storia, però è successa a me e non posso farci niente…lo sai che dipingo?” Aggiunse virando pacatamente il discorso .

“Davvero? E cosa dipingi?”

“Volti, volti tra le nuvole.”

“Perché non esci mai dal letto e ti nascondi?”

“Ogni tanto esco, ma quando arriva gente nuova preferisco non farmi vedere.”

“Perché?”

“Mi vergogno.”

“E di che?”

“Sono brutta, bruttissima!”

“Non è affatto vero. Sei molto bella, però devi mangiare così prendi un po’ colore. Senti verresti come me a fare un giro in corridoio?”

“Magari domani…”

“Va bene, chiediamo il permesso in fare un giretto giù in giardino che ne dici?”

“Vedremo…Posso farti un ritratto?”

“Davvero lo faresti?”

“Certo, sei molto bella e il tuo viso sta bene dentro le nuvole.”

“Grazie, ne sarò felice.”

Alcide si ritirò nuovamente sotto le coperte, questa volta lasciando il viso scoperto, osservò Nina tornare al proprio posto e poi si girò verso la finestra per guardare fuori.

La giornata successiva era illuminata dal sole e Nina invitò la compagna di camera a scendere in giardino per fare due passi.

Chiesero il permesso alla caposala che concesse loro di allontanarsi dalla stanza per non più di  mezz’ora. Le ragazze prendendosi per mano si diressero titubanti verso l’uscita quasi come avessero paura di assaporare il profumo dell’aria aperta che sapeva tanto di libertà, benché quella non fosse una prigione.

“Non sei mai stata qui sotto?” Chiese Nina all’amica.

“Sì, ma accompagnata dall’inserviente.”

“E’ tanto che sei qui?”

“Un mese, ma non è la prima volta che ci vengo. I miei parenti mi ci portano quando non faccio la brava…”

“Che significa: non faccio la brava?”

“Quando non mangio, non parlo con nessuno e sto sempre nel letto.”

“Capisco. Ma…ti…stai bene con loro?”

“Sì…penso di sì, ma per me non ha importanza dove sto. E tu invece come hai fatto ad arrivarci?”

“A dire il vero non lo so…mi ci sono trovata senza sapere per quale motivo, non so che cosa ci faccio e spero di andare a casa prima possibile.

Mi sembra di vivere un brutto sogno, una mattina mi sono svegliata nel mio letto e poco tempo dopo mi è precipitato il mondo addosso, senza poter reagire sono stata ricoverata prima in ospedale e dopo mi hanno portata qui. Da quel giorno la mia testa sembra avvolta nell’ovatta, non ho più la mente lucida, migliaia di suoni sconosciuti rimbalzano dalle orecchie al cervello, la notte mi sembra di vivere altre vite, il mio equilibrio è instabile ho spesso capogiri e percepisco la realtà in modo distorto. Sarà la situazione per me del tutto sconosciuta, sarà il malore che mi ha costretta al ricovero. So soltanto che mi sembra di stare in una vita che non è mia, di essere un’altra persona, dentro un altro corpo.

Non so nemmeno che cosa contengono le pasticche che mi propinano tutti i giorni, non ho più visto un medico, non so nulla di quello che mi sta succedendo, mi sento smarrita e indifesa.

Resto calma perché mio marito dice che è per il mio bene, ma non so quanto resisterò ancora qui dentro.”

“Coraggio, sono certa che guarirai in fretta. Le medicine che ci danno fanno dimenticare tutte le cose spiacevoli.”

“Effettivamente non sento più quel nodo in gola che mi faceva respirare male e mi trafiggeva il cuore, però il mio cervello non è più come prima. Spesso sono intontita e frastornata, mi addormento di giorno e durante la notte mi sento strana. Non sono certa che le pastiglie siano la soluzione migliore per il mio problema, temo che funzionino come la droga.”

“Conosci le droghe?”

“Diciamo che ne ho sperimentate un po’.”

“In che senso sperimentate e perché?”

“I primi ventanni della mia vita sono stati molto difficili perché ho avuto esperienze dolorose con persone più grandi di me; con i miei genitori non mi confidavo ed avevo paura di parlare così a 12 anni ho cominciato a bere grappa prima di andare a letto per addormentarmi. Dopo qualche anno ho voluto provare come funzionavano alcune sostante stupefacenti ed ho fumato hashish e marjuana, lsd, funghi allucinogeni e cocaina; ma le ho abbandonate quasi subito: le canne mi facevano vomitare, con la maria mi rincoglionivo e il resto non mi dava alcuna soddisfazione mi divertivo di più dando libero sfogo alla mia fantasia che è molto fervida.

Ho voluto provare perché vedevo conoscenti e amici che sembravano divertirsi, per me non è stato così perciò ho preferito passare ad altro.”

“Altro…ossia?”

“Lasciare libera alla mia mente, ho cominciato a dare spazio alle fantasie che mi passavano per la testa, che sognavo o che vedevo quando mi allontanavo dagli esseri umani. Ho messo tutto su carta scrivendo poiché non potevo raccontare, altrimenti mi avrebbero presa per pazza, e da allora non ho mai smesso di scrivere per me, e per liberarmi di tutto ciò che affolla la mia mente, che spesso occupa troppo spazio e mi confonde le idee. Scrivere è una liberazione e mi fa stare bene.”

“E chi legge ciò che scrivi?”

“Oh…pochissima gente, giusto mio marito e un’amica, e solo quello che decido io.

Sai il mio cervello non ha mai pace, non ho mai la testa vuota, nemmeno quando dormo purtroppo. Mi piacerebbe poter dormire e basta per riposare un po’, ma non voglio nemmeno vivere in questo oblio imposto dai farmaci.”

“Non si sta così male con l’oblio nella testa, poi ci fai l’abitudine, non pensi, non senti…non soffri.”

Chiacchierando non si accorsero che erano uscite dal giardino e si erano dirette verso un’altra ala dell’ospedale, solo quando incontrarono una recinzione con scritto “Ingresso vietato alle persone non autorizzate” capirono di dover tornare indietro.

Nina presa dalla curiosità domandò all’amica che cosa ci fosse oltre quella rete.

Alcide la prese per un braccio e l’allontanò dicendo: “Meglio non guardare di là, io ci sono stata una volta ma conviene andare via.”

“Perché ci sei stata?”

“Per fare un esame particolare…mi hanno portata lì per l’elettrochoc.”

“Elettrochoc! Ti hanno fatto l’elettrochoc?”

“Sì, ma una volta sola.”

“Pensavo fosse ormai bandito…ma, là dentro c’è gente che urla.” Disse indicando la zona con accesso vietato “Chi sono quelli?”

“Sono i matti, vieni andiamo via se ci vedono qui non ci fanno più uscire.”

“I matti? Quali matti, i manicomi non esistono più.”

“I manicomi no, ma i matti sì…e da qualche parte li devono pure mettere.”

Prima di essere allontana a forza dalla compagna Nina si aggrappò alla recinzione riuscì a vedere dentro un grande salone tanti esseri malconci e visibilmente sofferenti, qualcuno gesticolava in modo inconsulto, altri camminavano come automi senza anima, altri rannicchiati su se stessi come per difendersi. Una visione sconcertante che mise ancora più a soqquadro i suoi pensieri.

Tornarono velocemente indietro. Mentre salivano lo scalone Nina si girò per guardare l’ingresso, improvvisamente ebbe un tremendo capogiro, un forte attacco di vertigini, per non cadere si aggrappò alla ringhiera. La sorvegliante vedendola vacillare accorse in suo aiuto, mentre Alcide gridava in preda al panico. Subito tutto il personale ausiliario fu mobilitato, le due donne condotte a forza nei propri letti.

Sembrava il finimondo, dalla relativa serenità del giardino Nina era piombata in un inferno di urla e strattoni. Non riusciva a parlare ebbe un attacco di panico e fu presa da convulsioni, subito dopo cadde nell’oblio profondo.

Quando si svegliò era buio, ancora in stato confusionale tentò di alzarsi dal letto ma arrivò subito l’infermiera che la fece stendere.

Tentò di chiedere qualcosa, ma le parole non uscivano dalla gola. Osservava l’altra donna con sguardo interrogativo, ma questa le fece un’iniezione e lei di nuovo si sentì abbandonare dalla coscienza.

Aprì gli occhi e vide Marco seduto vicino a lei, non era più nella camerata con le altre donne, ma in una stanza singola.

“Come stai?” Le chiese.

“Che cosa è successo?”

“Niente di grave tesoro, hai avuto un malore e ti hanno sedata per un po’…ma ora è passato, vedrai che tra qualche giorno potrai alzarti dal letto.”

“Tra qualche giorno? Cosa stai dicendo, io voglio alzarmi adesso, e voglio uscire!”

“Non puoi, sei ancora debole hai dormito per tre giorni.”

“Coooosa?”

“Ti hanno sottoposta ad una terapia farmacologica necessaria per farti passare le convulsioni e…”

“Ma, io non ricordo nulla, ho dormito per giorni senza accorgermene? MI HANNO FATTA DORMIRE PER GIORNI SENZA CHE IO LO SAPESSI?”

“Amore è la terapia…stai calma ti prego altrimenti peggiori la situazione e finisce che ti sedano di nuovo.”

“Portami via da qui!”

“Non è possibile Nina, non hai ancora finito la cura…”

“Posso dormire anche a casa se è per questo. IO VOGLIO ANDARE VIA DA QUI! PORTAMI A CASA!”

Disse la ragazza con tono deciso, ma senza alzare troppo la voce.

Poi, guardandosi intorno, vide che era in una stanza da sola ne domandò il motivo e chiese notizie di Alcide.

“Sei qui perché devi stare tranquilla. Di Alcide non so nulla, non l’ho più vista.”

“Come? Chiedi in giro, voglio sapere dov’è finita!”

“Non lo sanno, o non lo dicono. Lascia perdere dai. Stai calma devi riposare.”

“Ho già riposato troppo. Adesso portami a casa.”

“Ti prego Nina, fai la brava ne parliamo domani.”

Il giorno, dopo quando Marco arrivò, Nina era sveglia e subito gli chiese di sbrigare le pratica per essere dimessa.

“Aspettiamo ancora un paio di giorni.” Disse lui.

“Se non mi porti a casa faccio lo sciopero della fame, mi affogo nel gabinetto, mi butto dalla finestra. Ti avverto, non voglio stare qui un secondo di più! Sono ricoverata da due settimane, dopo il primo giorno non ho più visto un medico, mi intontiscono continuamente con chissà quali e quanti psicofarmaci, mi sto perdendo il cervello qui dentro portami via prima che me lo fottano del tutto. Chiama il medico, io faccio la valigia!”

“Nina…”

Lei guardò il marito lasciando parlare il proprio sguardo.

“Va bene ci provo.” Conosceva bene la determinazione della moglie quando s’impuntava.

Il medico arrivò dopo due ore, si oppose alla richiesta di Nina cercando di convincere sia lei sia il marito che la degenza non poteva essere interrotta:

“Vede signor Fassi sua moglie è disturbata mentalmente a causa delle vicissitudini sofferte durante l’infanzia e l’adolescenza. Le molestie sessuali subite prima dei dieci anni; poi durante l’adolescenza il fatto di essere stata vittima di uno psicopatico che l’ha sottoposta a terrorismo psicologico, maltrattamenti fisici e persecuzioni continue, l’hanno resa fragile minandone la personalità proprio nei momenti più delicati della formazione del suo carattere, l’età evolutiva è un periodo fondamentale per qualunque individuo e Nina l’ha attraversata in modo drammatico, la sua psiche è stata gravemente danneggiata.”

“Purtroppo questo lo sappiamo bene, ma sembrava aver messo da parte quei drammi personali, ne abbiamo parlato a lungo lei è consapevole di quello che le è successo e…”

“Come dice lei: li ha messi da parte, ma non superati perciò condizionano ancora il suo carattere che è instabile, soggetto a sbalzi emotivi devastanti, inoltre il subconscio tende a nascondere le sofferenze intime perciò le trasforma in patologie che in realtà non ci sono, ma i sintomi li subisce comunque.

Noi vogliamo tenerla qui perché è un caso molto interessante da analizzare e vorremmo provare a guarirla con farmaci che devono essere somministrati sotto stretto controllo, perciò mi oppongo all’abbandono della clinica.”

“Onestamente mi pare che nessun medico si occupi di lei, l’unica terapia cui viene sottoposta è farmacologica e i risultanti non sono entusiasmanti. A me sembra che stando qui sia peggiorata, è depressa, confusa, abbattuta, la vedo così triste…abulica.”

“Sono un po’ gli effetti degli psicofarmaci perciò non possiamo dimetterla in queste condizioni.”

Nina disse che in quelle condizioni l’avevano ridotta loro, con le loro “cure” e minacciò il professionista di chiamare i carabinieri se non l’avesse lasciata andare. Quella non era una prigione, lei non era una pazza pericolosa e quindi libera di andarsene quando voleva.

Dopo quest’ultima affermazione il professionista cedette alle insistenze.

“Come desiderate, non posso obbligare nessuno a farsi del bene. E’ comunque necessario che suo marito firmi di assumersi la responsabilità per la sua incolumità. Le suggerisco anche di rivolgersi ad un buon psicanalista per cercare di rimuovere i traumi dell’infanzia.”

Marco firmò e finalmente, riuscirono a varcare il cancello dello psichiatrico per tornare a casa.

Prima di abbandonare l’edificio Nina tentò ancora di avere notizie di Alcide, ma non riuscì a carpire alcunché, anzi capì che era meglio allontanarsi in fretta prima che succedessero altri guai.

Il ritorno a casa rischiarò l’umore della ragazza, ma la sua vita cambiò di nuovo radicalmente.

Nina amava molto lo sport soprattutto il ciclismo, per anni lo aveva praticato a livello amatoriale percorrendo centinaia di chilometri con la sua adorata bici da corsa. Dopo qualche giorno decise di fare un giretto per recuperare l’allenamento, ma non sapeva che una nuova spiacevole sorpresa l’attendeva: pochi giri di pedale e si accorse di non riuscire più a stare in sella perché aveva perso il senso dell’equilibrio.

Pensando di non essere ancora in forma ci riprovò nelle settimane successive, ma il risultato fu uguale, come sollevava i piedi da terra cominciava a barcollare rischiando di cadere.

Non volle rassegnarsi e decise di fare un tentativo in compagnia del marito che la seguiva e la incoraggiava. Con mani e gambe tremanti, l’ansia che le stringeva la gola si obbligò a continuare arrivando fino alla strada, fecero un paio di chilometri con apprensione e fatica per entrambi. Mentre sembrava che l’esperimento riuscisse Nina all’improvviso frenò senza alcun motivo e, proprio mentre stavano arrivando delle auto, rischiò di cadere ed essere investita.

Appena scesi dalle bici Nina asserì di aver visto la terra aprirsi davanti a sé, questo il motivo della frenata immotivata.

Tornarono indietro spingendo i mezzi, entrambi sconsolati e pieni paura per quello che sarebbe potuto succedere.

Da quel giorno iniziò per Nina un nuovo lungo periodo di nuovi tormenti e afflizioni.

Si separò dal marito e decise di vivere da sola per recuperare i cocci della propria esistenza senza interferenze esterne.

Continuò ad utilizzare psicofarmaci di cui purtroppo non riusciva a liberarsi, cambiando spesso cure e neurologi.

Dovette affrontare un altro pesante ricovero, questa volta in una rinomata clinica universitaria dove fu sottoposta a cure sperimentali, per le quali dovette rilasciare il consenso che sollevava da ogni responsabilità i medici.

Quelle cure provocarono effetti collaterali devastanti: disturbi psicomotori e gravi problemi visivi causati dalla continua mobilità delle pupille che le procuravano visioni distorte di cose e persone, come immagini duplici o triplici.

Da quell’ospedale uscì con una diagnosi di invalidità transitoria del 65 per cento.

Passarono tre lunghi anni prima che riuscisse a riprendere una parvenza di stabilità emotiva ed abbozzare una personalità tutta sua ed indipendente accettando il brutto ed il bello che aveva in sé. Imparando a convivere con le proprie anomalie e peculiarità, provando ad affidarsi alle cure di psicanalisti che ebbero il solo effetto di farle buttare via denaro senza ottenere il minimo aiuto: raccontare i suoi problemi più intimi a sconosciuti che pensavano ai fatti loro, con il cronometro in mano senza nemmeno ascoltarla, non era certo edificante.

Decise che i suoi psicoterapeuti sarebbero stati gli alberi e la natura, con i quali sentiva di avere maggiori affinità che con gli esseri umani.

Decise di affidarsi al proprio istinto di sopravvivenza che, con le esperienze subite e vissute, si era affinato come quello degli animali.

Imparò a non farsi più cogliere impreparata nel momento degli attacchi di panico, imparò a controllare paure ed emozioni, ad amarsi, rispettare se stessa ed il proprio corpo.

Tirando fuori tutta la sua forza di volontà cercò di conoscersi a fondo facendo autoanalisi, riuscendo ad affrontare e superare gravi momenti di sconforto in cui desiderava soltanto addormentarsi senza sognare e non svegliarsi mai più.

Nina comprese che certi stati di sensibilità emotiva cronici non l’avrebbero mai abbandonata, sapeva che il resto della sua esistenza avrebbe avuto spesso percorsi difficili da affrontare, ma non immaginava che quello era solo l’inizio di un nuovo percorso poco rassicurante.

Tutto quanto sopra raccontato è successo veramente, solo i nomi dei protagonisti sono inventati.

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