Diritti d'autore · qualche pezzo di me

Un calvario per due. Epilogo di un fidanzamento rabbioso

Con tanta paura e forzando il mio senso del pudore, non sessuale ma personale, ho deciso di raccontare l’esperienza con il primo fidanzato della mia vita.
Per ragioni pratiche questo è solo un riassunto, poiché per scendere nei particolari servirebbero troppe pagine.

Avverto i lettori che questo pezzo di cronaca vera contiene aneddoti raccapriccianti, pertanto sconsiglio la lettura a persone sensibili.

L’episodio che segnò la mia vita fu il primo tè danzante della nuova scuola, un sabato pomeriggio con la mia compagna del cuore.
A tredici anni già ne dimostravo quindici o sedici, a parte le tette che non crescevano mai e che io m’inventavo imbottendo il reggiseno con il cotone.
Ero bellissima, sensualissima, e ricercatissima finalmente anche dai ragazzi della mia età, ma ancora non avevo avuto modo di assaporare questi privilegi.
E non successe mai perché appunto a quel primo tè danzante conobbi quello che sarebbe diventato il mio primo “tutto”.

Marco aveva diciannove anni e quindi, a differenza dei miei coetanei, il coraggio di farsi avanti senza badare agli altri pretendenti.
Dopo la festa, mi accompagnò a casa e decise che ero la sua ragazza.
Era carino, intraprendente e galante, giocava nella squadra di calcio locale, studiava all’Isef di Torino, studente modello, atleta perfetto e senza vizi (non beveva, non fumava, non conosceva nemmeno il gusto del caffè) quindi la cotta per lui fu immediata.

Siccome era un bel po’ più grande di me, mio padre pretese di conoscerlo e quindi, dopo un mese, io a tredici anni e mezzo ero fidanzata “in casa” con un ragazzo di diciannove. Questo alla prima uscita ufficiale da “signorina”.

Lui mi piaceva, e mi piaceva essere la sua ragazza, ma non avevo nemmeno pensato lontanamente di farlo diventare l’uomo della mia vita.
Cosa che, invece, lui aveva già deciso.
Era figlio del bidello del liceo, viveva con padre madre e un fratello minore di un anno.
La sua famiglia, composta di tre uomini e una donna, era guidata in tutto e per tutto dalla dispotica madre che oltre ad annientare totalmente il marito, teneva i figli soggiogati dalla sua malsana conduzione matriarcale.

Questa mamma bisbetica gli aveva insegnato che doveva scegliersi una bella ragazzina e “tirarla su” come voleva lui per poterla un giorno sposare.
Ovviamente in questo “tirarla su” lo zampino lo avrebbe messo anche lei.

Io, che stavo cercando di uscire dai traumi dell’infanzia tormentata, non immaginavo certo che da quel momento sarei passata dal purgatorio all’inferno.

L’inferno iniziò dopo pochi mesi di fidanzamento quando mi stancai delle sue pretese di impostare la mia vita.
Dovevo vestirmi ed atteggiarmi come diceva lui, dovevo vergognarmi di essere figlia di povera gente e rinnegare la mia famiglia, dovevo aspirare a migliorare la mia posizione sociale frequentando persone di rango elevato ben lontane da quelle che erano le mie ambizioni.
Mi obbligava a dividere tutto con lui, soprattutto i proventi del miei lavoretti adolescenziali, per comprare quello che serviva a “noi”, ma che possedeva lui: automobile, macchina fotografica professionale per il suo hobby preferito, tenda da campeggio ecc.

In poco tempo divenni magrissima, stanca, depressa e triste.
In quella condizione mentale non fu difficile prendere una cotta per un compagno di scuola.
Mi sembrò naturale annunciarlo a Marco e dirgli che intendevo interrompere il nostro rapporto.

Se fino a quel momento avevo subito un educatore maestro di vita, da lì in avanti il mio fidanzato si trasformò in aguzzino, persecutore, carnefice.

La reazione al mio proposito di interrompere la nostra relazione fu madornale e inaspettata: mi prese a ceffoni e disse che io non potevo lasciarlo, non potevo permettermi di decidere nulla della mia vita perché lui ne era il padrone.
Mi ordinò di tacere sull’andamento del nostro rapporto, con chiunque, perché mi avrebbe uccisa.

E fu talmente convincente che io non ebbi difficoltà a credergli, avevo quasi quindici anni ed un bagaglio di esperienze devastanti alle spalle.

I tre anni successivi furono l’inferno in terra per me.

La mia vita si trasformò in un calvario quotidiano fatto di umiliazioni, plagi, e botte.

Mi diceva che ero un essere inferiore, non ero degna di toccare nemmeno i suoi libri e i suoi oggetti, mentalmente andicappata, fisicamente inguardabile, ignorante, diseducata, e quindi obbligata a seguire i suoi insegnamenti di giovane fascista maschilista frustrato dalla madre dispotica, e con un odio profondo verso le donne che sfogava su di me in tutti i modi possibili.
Se non ubbidivo eran botte, e a volte erano botte anche se ubbidivo.
Vivevo nel terrore di sentirlo salire le scale.
Insegnava alle scuole serali e mi obbligava a rimanere sveglia ad attenderlo per ascoltare gli sfoghi sulla sua giornata che, se era stata tranquilla, si risolvevano con un veloce saluto, se era stata nervosa la visita serviva a scaricare le sue frustrazioni, omaggiandomi della razione quotidiana di umiliazioni, insulti e botte del tutto gratuiti.
Sempre sotto minaccia di morte se avessi parlato con qualcuno di tutto questo.

Fondamentali i nostri rapporti col sesso, si faceva solo petting profondo, tranne la penetrazione.
Io dovevo sposarmi vergine, con lui ovviamente.
Mi metteva alla prova chiedendomi di avere rapporti completi, io dovevo sempre rispondere no, perché lui diceva che se avessi risposto affermativamente ero una puttana e quindi avrei avuto altre punizioni.

Era chiaramente uno psicopatico, frustrato dal rapporto deviato con la madre, faceva a me quello avrebbe voluto fare a lei.

Un bella “chicca” della storia mi aspettava al compimento dei miei diciotto anni.
Giornata che lui mi fece trascorrere in modo infernale e in lacrime perché avevo tentato di dare una festicciola a casa mia senza interpellarlo sulla scelta degli invitati.
La festa non si fece ed io fui sua preda per tutto il giorno del mio compleanno.

Ed ecco l’autentica “perla”. Dopo un paio di settimane dal mio compleanno lui cominciò ad accusare malesseri abbastanza comuni, nausea, vomito.
Il dottore diagnosticò una colica renale, che si risolse in pochi giorni.

Dopo un paio di settimane il male si ripresentò.
Arrivò a casa mia dirigendosi di corsa verso il bagno, ma non arrivò in tempo.
Attraversando la mia stanza vomitò con uno spruzzo violento decorando un’intera parete di rigurgito maleodorante.
Stava ancora male. Dopo essersi ripreso andò casa e chiede alla madre quello che all’epoca era il “libretto della mutua” per andare dal medico.
Lei glielo rifiutò dicendo che stava fingendo. Lo accompagnai dal mio medico di base, il quale suggerì accertamenti che dovevano essere prescritti dal suo medico.
Telefonai quindi alla madre che mi rispose in malo modo dicendo che, in quanto traditrice, non potevo permettermi di darle ordini.

Marco peggiorò in pochi giorni, finalmente la strega si convince e lo fece ricoverare in ospedale. Dopo veloci analisi venne operato per un blocco intestinale.
L’operazione rivelò un cancro in stadio avanzato al colon, gli restavano sei mesi di vita.
Aveva ventiquattro anni, una vita da sportivo, supermorigerata e senza vizio alcuno.

Io pensai che era colpa mia, di tutti gli accidenti che gli avevo tirato, oppure che c’era una giustizia divina.

La mia situazione peggiorò ancora perché lui, tra un ricovero e l’altro, diventò ancor più cattivo con me e solo con me.
I suoi patimenti diventarono miei, mi fece ingoiare la sua malattia come fosse mia.
Mi chiamava al telefono accusandomi di non andare mai a trovarlo, io correvo da lui e venivo cacciata via dalla madre perché lui non voleva vedermi.

Questo stillicidio continuò per tutta la sua malattia che io vissi sulla mia pelle.
Non mangiavo più e cominciai ad assumere psicofarmaci cercando di sopravvivere a questa cosa che mi stava devastando mentalmente come devastava lui fisicamente.
La sua cattiveria si accentuò al punto da diventare crudeltà.
Ricordo come fosse ieri questo particolare: mi chiamò al suo capezzale, era coricato ormai senza forze, pelle e ossa, dopo la terza operazione gli lasciano un buco nella pancia per lo spurgo intestinale. Era il mese di luglio, non aveva nemmeno la fasciatura, solo una garza copriva la ferita.
Faceva caldo e lui puzzava, io ero lì, lui si grattò la ferita con le unghie, mi porse la mani sporche di sangue e putridume e mi disse di fargli la manicure.

Lo feci piangendo in silenzio, provando anche pena per lui. Cosa dovevo fare con uno che anche mentre stava morendo aveva il solo desiderio di torturarmi.
Mi lasciai torturare.

Questo è un sunto molto concentrato, lascio immaginare i dettagli perché l’agonia andò avanti fino alla fine di luglio.
La malattia s’era manifestata a metà settembre dell’anno prima.

Tra un ricovero e l’altro aveva trovato la forza di andare in vacanza con amici a Napoli, farsi una fidanzata napoletana parallela a me che amava e rispettava, mentre io ero additata da tutti come la troia che lo aveva tradito e lo voleva abbandonare perché ammalato (questo diceva in giro la madre).

Pochi giorni prima di morire venne a casa mia accompagnato da un amico perché lui non si reggeva in piedi, approfittando del fatto che non c’è nessuno.
Entrarono dalla finestra e mi portarono via tutte le fotografie fatte durante gli anni del nostro fidanzamento, comprese le mie, il mio passaporto e tutti i miei documenti, nonché qualunque cosa mi appartenesse o avessimo acquistato insieme e che potesse ricordare la nostra storia.
Non ho più una foto dai miei quattordici ai miei quasi vent’anni.

Ovviamente non sporsi denuncia contro un moribondo.
Anche questa volta silenzio e rassegnazione.

Andai a casa sua ma lui mi mandò via.
Lo ricoverarono dopo due giorni, ormai stava morendo.
Dall’ospedale mi mandò a chiamare.

Eravamo io e lui da soli in una stanza semibuia perché faceva caldo e le tapparelle erano abbassate, c’era odore di morte e lo sapevamo entrambi.
Vidi uno scheletro sotto il lenzuolo, i piedi fuori rivelavano piaghe da decubito.
Lo guardai in silenzio, non c’era nessuno, solo io e lui quasi in coma.
Aprì gli occhi, mi guardò, mi prese la mano disse “scusami”, e poi morì.

Morì davanti a me e solo con me.

Al funerale abbracciata alla madre c’era la fidanzata napoletana, io ero dietro perché la vecchia non mi voleva.

Non avevo più cervello per pensare. Non sapevo se ero libera o se ero morta anch’io. Da lì in poi la mia vita cambiò.
Finalmente ero padrona di me stessa, ma solo fisicamente perché ormai nel mio cervello i guasti psichici avevano piantato tante radici che ancora adesso sto cercando di dominare.

Mi scuso se ho ferito l’animo di qualcuno.

48 pensieri riguardo “Un calvario per due. Epilogo di un fidanzamento rabbioso

  1. Avevo una amica tanti anni fa che si trovo’ in una situazione simile. Un giorno mi chiamo’ e la trovai con dei lividi in faccia. A quel tempo ero un tipo non proprio dedito al perdono e alla legalità. Andai a trovare il ragazzo insieme a un paio di amici…….purtroppo lei mori’ giovane qualche anno dopo per via di droga che le distrusse il fegato. Almeno pero’ botte non ne ricevette più ….

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  2. Mi dispiace. Eri piccola, e lui ha approfittato della tua fragilità. Colpa sua, della sua cattiveria, e di sua madre che l’ha cresciuto in quel modo, con la mentalità del “prendi una ragazzina e crescila per diventare tua moglie”.
    Purtroppo è ancora parecchio diffusa, come mentalità: ho avuto un’esperienza del genere anche io, ma ero “grande” (appena maggiorenne) e sono fuggita appena mi sono resa conto di quello che mi stava facendo.
    Ora guardati: sei una splendida donna, intelligente, spiritosa e interessante. Malgrado lui e malgrado lei, malgrado tutto il male e tutte le malelingue. Puoi essere orgogliosa.

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  3. Non devi scusarti di aver scritto della tua esperienza anzi, ne devi essere fiera.
    Sono sinceramente dispiaciuta per quello che hai vissuto, non posso neanche immaginare quanto sia stato devastante.
    Ti auguro, nonostante tutto, di trovare la pace e la serenità che meriti.

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  4. Mi dispiace tanto..del resto eri sola e troppo giovane per combattere un essere simile.E’ triste che ti abbiano lasciato alla sua mercè.
    Di sicuro sarai diventata una persona più forte e più cauta nei rapporti con gli altri.Passa oltre!Complimenti per il coraggio che stai dimostrando raccontando in questa sede un’esperienza tanto intima e dolorosa.

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  5. senti, ma c’è un momento della tua vita in cui ti sono capitate cose belle? un fidanzato serio o degli amici/amiche sinceri o una vincita al super enalotto? scherzi a parte faccio fatica a immaginare l’incubo che deve essere stato e sopratutto averlo affrontato da sola, spero tu ne sia uscita, lo spero davvero.

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  6. Parla racconta di a te stessa ancora una volta come sono andate le cose! Fa bene aiuta a non risentirsi sempre e tanto! E guarda gioia grande quante persone ti vorranno bene anche da lontano! La forza arriva anche da parole “dedicate” in sostegno perché la parola ha potere!!!

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      1. Non vedo perché tu debba colpevolizzarti.È evidente che il renderlo pubblico ti è servito ad alleggerire un peso che portavi dentro.Sicuramente penso che certi pesi siano difficili se non impossibili da condividere con le persone magari vicine(amici, parenti) e quindi finisce che uno si tiene tutto dentro per sempre. Invece parlarne con degli sconosciuti (o comunque delle persone lontane) sicuramente è più facile e forse utile.È stata una brutta storia, stai cercando di superarla e questo credo sia ciò che conta e non certo la salvaguardia della “memoria” dell’altro. Probabilmente tante altre persone hanno patito analoghe vicende o vicende che le hanno segnate senza mai trovare la forza di parlarne con nessuno. Insomma…pensiamo ai vivi, pensa soprattutto a te stessa…le merde sono altre…le merde non hanno scrupoli ne coscienza.

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  7. È una storia orribile, ma nello stesso tempo ti ringrazio per averla condivisa. Ci sono tante donne che non riescono ad aprire gli occhi e ogni testimonianza di abuso può essere davvero preziosa.
    Spero con tutto il cuore che tu abbia superato il trauma di un’adolescenza non vissuta e che oggi tu sia più forte di tutto il male ricevuto. Un abbraccio grande.

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      1. Riesco soltanto a comprendere la difficoltà non avendo mai vissuto nulla di simile. Quello che posso dirti è che ti sono vicina con tutto il cuore. Un abbraccio!

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  8. Sei caduta nella sua trappola perché eri giovane e insicura. Mi rendo conto che per essere superiori a certe situazioni bisogna superare i trent’anni, aver vissuto e acquisito esperienza sufficiente per riuscire a inquadrare le persone. I figli maschi hanno tutti una madre e il complesso edipico, chi più e chi meno. In un fidanzamento c’è sempre la competizione e il paragone con la mamma di lui.

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    1. Mi ha fregato la giovane età e le brutte esperienze precedenti. Quando ripresi la mia libertà diventai aggressiva e battagliera, non permisi più a nessuno di mettermi un dito addosso. Ma il risultato finale è che non sono mai riuscita a costruire un rapporto duraturo con un uomo, neppure con quelli che meritavano. Ho sviluppato un complesso di superiorità nei loro confronti. Mi sono sposata, ho divorziato, ho avuto mille fidanzati, qualcuno l’ho massacrato mentalmente, qualcuno ha massacrato me. E sono rimasta un’anima in pena che non avrà mai pace.

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